Essere o avere

Me ne stavo sulla panchina del balcone di casa e un tiepido sole autunnale mi accarezzava il volto. Ad occhi chiusi, respirando secondo una antica tecnica indiana, mi si era ossigenato quanto bastava il cervello e, alla lieve tensione dovuta alla fatica di un lavoro manuale svolto poco prima, si era sostituita una pace, una serenità ed una lucidità che ogni tanto, in particolari occasioni, mi capita di sperimentare.

Lievi pensieri, quasi sussurri, mi giungevano alla coscienza, accompagnati da immagini a colori ed io li osservavo nella loro quieta manifestazione. Ad un tratto il sole, insieme con il suo tepore, aveva materializzato sul mio sipario mentale il mito di Icaro, con le sue ali di piume e cera, e del suo giovanile azzardo di avvicinarsi troppo al sole, nonostante i consigli di suo padre, inventore di quel sistema di volo e compagno nell’impresa. Subito si accompagnò l’idea del motivo che spinse il giovane a volare così alto, l’idea che da sempre gli uomini fantasticano guardando al cielo, e in particolare il concetto che io fin da piccolo ho desiderato di librarmi in volo, superare barriere, energie e spazi e visitare realtà planetarie lontane. A questo punto si impose potente il  mio orientamento  tecnico-scientifico suggerendo: “Il problema consiste nella forza gravitazionale e ogni tentativo o progetto di volo non può prescindere dal peso del mezzo che si intende utilizzare per innalzarsi verso le stelle”.

Zavorra! Ecco il nocciolo del problema!

Pausa, come per dare tempo al regista di raccogliere informazioni, suggerimenti, idee, nuovi spunti…e il tema, con le sue molteplici argomentazioni, si spostò su di un piano meno materiale, più  metafisico.

Zavorra, qualcosa  di cui “ci si disfa” quando si trapassa, qualcosa di cui, spesso nostro malgrado,  dobbiamo fare a meno in questa fase. Soldi, oro, gioielli, possedimenti terrieri e materiali non ci potranno seguire, non ci potranno dare vantaggi in questa diversa realtà.

Iniziarono a scorrere immagini e rimembranze di vite passate, esistenze con scontri cruenti, saccheggi, cumuli di ricchezze in oro e denari che cedettero il passo a esperienze di meditazioni, digiuni, preghiere.

Mi rividi armato di spada, di sacro furore, di licenza di uccidere in nome di un ideale religioso, reso ancora più sacro dalla benedizione della massima autorità religiosa, a sterminare umanità di diversa religione, colore della pelle, diversa cultura e civiltà, versando sangue di soldati, donne e bambini, tanti innocenti col solo torto di abitare in quelle terre. Alla fine, ironia della sorte, quel potere che mi aveva intitolato in suo nome a sterminare genti si rivale su di me, rapinandomi onore, ricchezze, la vita stessa. 

Poi le immagini sfumarono su un ambiente di fredde mura, con scarsa luce, con voci e canti  monastici, e poi silenzi, preghiere, letture al lume di candele di cera e grasso, odori di povertà, preghiere e privazioni, ardori contemplativi alla ricerca di verità assolute.

Altre vite in una lunga catena di eventi, di realtà nelle quali avevo avuto occasione di occuparmi di una filosofia di vita piuttosto che di un’altra ma che alla fine, in questa dimensione, mi rivedono qui su questo pianeta a vivere una vita che non ho voluto, che non ho scelto.

Mi risultò chiaro a questo punto che il problema di ritrovarmi sempre e comunque qui ogni volta, con corpi diversi, interprete di diverse qualità di esistenza, non poteva dipendere tanto dalla ricchezza posseduta, dal potere esercitato, o per contro dalla povertà sofferta o dalle preghiere recitate bensì da qualcosa che costantemente ci accompagna nel nostro cammino terreno, da qualcosa che influisce a nostra insaputa sul risultato che determinerà alla nostra morte un tipo di esistenza futura piuttosto che un altro.

Questo qualcosa che di volta in volta ci portiamo appresso altro non è che l’involucro temporaneo della nostra anima che, confusa, smemorata, come narcotizzata, da vita ed energia al corpo ed alla mente la quale, in accordo a ben precise meccaniche, ne gestisce le varie fasi della sua esistenza su questo pianeta.

Queste meccaniche mentali, leggi che stanno alla base del funzionamento di questo tipo di energia, regolano la sopravvivenza del corpo, indirizzandolo verso quelle soluzioni di vita che meglio ne soddisfano i bisogni, utilizzando il bagaglio culturale e genetico di cui viene provvisto il duo corpo-mente alla sua nascita. Questi bisogni sono evidenziati in esigenze di tipo fisico quali fame, sete,  e sesso, sempre accompagnati da manifestazioni di emozioni e sensazioni più o meno intense.

In questo contesto di vita terreno sembra che ci sia spazio solo per l’avere, avere più cibo, avere più vestiti, avere corpi sempre giovani, avere più ricchezze, e la vita dedicata alla sopravvivenza del corpo-mente sicuramente ne danno ragione. E però tutte queste cose alla fine di una pur comoda esistenza rimangono solo agli eredi, e in un modo o nell’altro l’anima, la batteria di quel corpo ritorna sempre qui. Tutti questi averi, corpo e mente inclusi, alla fine si comportano come una zavorra che ci impedisce di librarci in volo verso altri mondi. 

Nella visione sulla panchina arrivò l’idea, come fosse una cosa straordinariamente per me singolare, della dualità dei due verbi ausiliari della lingua italiana: essere e avere.

Del secondo se ne è già vista l’importanza, ma del verbo essere che se ne può dire?

La risposta sulla panchina disse che l’essere implica necessariamente il non avere, ma senza ciò che caratterizza la nostra esistenza sul pianeta come è possibile adottare la “modalità essere”? Siamo talmente abituati a vivere, a pensare, a relazionarci l’un l’altro con i corpi e le relative menti che ci sembra impossibile operare altrimenti.

E continuando: essere significa dare spazio alla nostra parte divina.

Essere significa conoscenza delle meccaniche mentali e consapevolezza del fatto che, oltre al duo mente-corpo, c’è una anima dentro di noi che deve essere risvegliata e resa consapevole del suo fondamentale ruolo di guida cosciente nel vivere la propria attuale esistenza.

Essere quindi è assumere da parte della nostra anima sveglia un atteggiamento di osservatore di ciò che sta succedendo al nostro corpo o intorno a lui, valutando di volta in volta la migliore soluzione da adottare, in modo cosciente e responsabile, così da non danneggiare con il proprio comportamento noi stessi o il nostro prossimo o l’ambiente che ci circonda.

Essere significa pertanto usare una sorta di intelligenza divina, che è nascosta da qualche parte nella nostra anima, e che ha caratteristiche divine e che non ha nulla a che vedere con le regole a cui sono asservite le nostre menti e i relativi corpi.

Questa intelligenza divina ha in sé una caratteristica che la rende unica: l’Amore, con la A maiuscola.

L’Amore promana dall’Essere che, pur abitando in un corpo umano, opera in assenza di energia, quindi di emozioni ma possiede in sé una forza senza limiti, ed è rivolto costantemente al benessere delle persone e al risveglio delle loro coscienze.

Le coscienze risvegliate o in fase di risveglio useranno sempre più la modalità essere, abbandonando via via la modalità avere; alla loro dipartita dal corpo, dotate di Amore, saranno considerevolmente più leggere, magari senza alcuna zavorra, e così potranno innalzarsi verso altri mondi, verso il sole e le stelle, realizzando il desiderio di Icaro e, chissà, tornando verso Casa.

Ruggero Fumagalli
Blogger Gruppo Rebis

Pubblicato da Redazione Rebis

Membro gruppo esperti e gruppo redazione di Rebis.

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