Di solito, quando cercavo di darmi un senso sul mio presente e sul mio futuro, non lo trovavo. Osservavo soltanto i bivi che avevo incontrato sulla mia strada e le direzioni che avevo inforcato senza sapere che cosa avrei lasciato dall’altra parte. L’ignoto. E mi chiedevo che cosa mai sarebbe potuto succedere se avessi fatto una scelta diversa. Una vita di rimpianti. Invano. Nulla cambiava.

Poi, un giorno, mi sono risvegliato in un grande fiume. Mi trovavo contro la sua corrente, che mi avvolgeva, ma la forza dell’acqua non mi portava con sè a valle. Ero fermo, circondato dai suoi mulinelli. Cosciente solo, questo sì, che era un fiume di dolore. Mi batteva su tutte le membra e in particolare sul viso, da un tempo che non avrei saputo definire, ma che immaginavo – e sentivo – essere molto lungo. Del resto, ero stato addormentato fino a poco prima, come avrei potuto sapere da quanto mi trovavo lì?
Il dolore, però, quello sì, lo ricordavo da sempre. Mi colpiva, mi avvolgeva, mi frustava, tentava di trascinarmi con sè ma io, nonostante fossi incosciente, non mi muovevo di un millimetro.
Dal momento in cui ho aperto gli occhi, nel mezzo del fiume, ho smesso di dormire. E il dolore si è fatto cosciente. A furia di sbattermi contro, l’acqua che mi aveva fatto al massimo fluttuare un po’ su e un po’ giù, ma che mai era riuscita a trascinarmi a valle con sé, mi aveva destato. Adesso fluttuavo attento, in mezzo al vorticare del Gange – così mi venne da chiamarlo, anche se non mi pareva di conoscerne il nome – e l’acqua aveva acquistato voce, e mi parlava. Mi diceva tutte le frasi che mai avevo voluto ascoltare. Il suo narrare mi diceva di errori, di sparizioni, di conoscenze incomplete, di ripetizioni infinite. Era dura da ascoltare, forte da accettare. Ma, dal momento che mi ero destato, nulla poteva fermare il mio udire. Non potevo addormentarmi di nuovo a comando. Mi toccava stare sveglio e presente.
Il fiume mi sembrava crudele, con tutto il suo vociare. Mi faceva specchiare in sé, le sue limpide acque cristalline e azzurrognole mi parevano cattive nella loro spietata crudezza.
A un certo punto la prospettiva è cambiata. La corrente non era più colei che mi parlava delle mie malefatte, dei miei errori, dei fallimenti accumulati. E, soprattutto, non era più unica. Si frammentava, davanti ai miei occhi e a tutto il mio Essere sommerso dall’acqua, in tante minuscole gocce. Ognuna delle quali era una lacrima. Una mia lacrima. Il fiume pareva fatto del mio pianto vecchio di secoli, millenni, centinaia di migliaia di anni. O forse più. Ogni goccia una lacrima, ogni lacrima un dolore, un ricordo, un’immagine, un compagno perduto, una battaglia finita in sconfitta, un dio non ritrovato, una terra sommersa e mai più vista, una conoscenza sepolta, un porto ripempito di sabbia.
Le mie lacrime parevano tutto ciò che potevo vedere e sentire. Ognuna di esse frammentava il mio vecchio Io, e il mio Ego ne usciva distrutto.
Ma non tutto era come pareva. Ancora una volta, la visione evolveva. Il fiume non era più di un solo colore. Accanto all’azzurro scorrevano il viola, il giallo, il verde, il rosso e tanti altri colori che sulla Terra neppure esistono più. Ogni colore una stirpe diversa di lacrime. Diversa dalla mia, ma non per questo meno sofferente. Il fiume era il pianto di molti di Noi. Noi chi?
Non lo sapevo, eppure lo sentivo. Le lacrime dei mie Fratelli e delle mie Sorelle erano lì insieme alle mie, a formare il mio ambiente. L’elemento acqueo non era più solo mio. Le nevi dell’Himalaya da cui traevano origine erano comuni. E la Terra pietosa che avvolgeva il Gange ne era testimone. Il cielo sovrastante in cui sembravo immerso nel mio fluttuare, che in realtà come detto era sott’acqua, mi guardava senza nulla togliere al mio strazio.
E nel dolore delle altre lacrime ho riconosciuto i miei compagni e compagne di viaggio, che il fuoco del Sole faceva nascere dal ghiaccio perenne in cui la sofferenza si era cristallizzata, fondendoli in acqua di fiume, incanalandoli a scorrere tra la terra e sotto il clielo, facendoli evaporare in esso, tornare su sulle montagne di nuovo materia sotto forma di neve in un lungo, eterno ritorno, dove tutto era sonno incosciente.
Solo che, adesso, mi ero svegliato. Le lacrime mie e degli altri mi scorrevano addosso e non mi erano più incoscienti. Il loro dolore parlava ora a una parte più sveglia di me. E tutte chiedevano udienza.
Anche perché, mi pareva di osservare, c’era un tipo di lacrime diverso da tutte le altre. Colore indaco, mi appariva. Lacrime di dolore cosciente. Anche loro erano frutto del pianto, ma dentro a ognuna c’era una domanda, un “perché?” con una risposta. Quelle non erano lacrime di sonno, e mi parlavano in maniera autonoma. Erano frutto di un lavoro consapevole, umile, lungo e testardo, di ricerca dello stato di veglia, figlie di un progetto di rinascita che non appariva in nessuno degli altri colori di lacrime.
In quel momento ho capito che il dolore da me sentito nello stato d’incoscienza era duplice, anzi triplice. C’era il mio, il più profondo perché irrisolto per mia responsabilità. Un dolore sordo, che soltanto io avrei potuto alleviare. C’era poi il secondo, quello dei fratelli e delle sorelle, sordo anch’esso, che mi faceva male nella misura in cui io cercavo, dentro ai corpi terrestri in cui vivevo, di darvi sollievo attraverso percorsi, progetti, filosofie, forme di giustizia, per non guardare – in realtà – il dolore primario, cioé il mio. Illusione! Facevo finta d’aiutare altri per non aiutare me stesso, non essendone in grado. E poi c’era un terzo dolore, il dolore cosciente, non mio, ma quello che mi parlava da tempo. Quello che, ne ero ormai certo, mi aveva svegliato nel mezzo del fiume con la sua continua insistenza.
“Eccoti”, ho detto, “ora ti conosco”. “Chi sei?” avrei voluto chiedere senza averne il tempo perché la risposta era dentro alla stessa domanda. Era il primo di Noi a essersi svegliato. Si era fatto domande, trovato risposte e, anche se non voleva, il suo solo esistere in mezzo a noi faceva sussurrare i suoi perché ai nostri orecchi incoscienti. Fino a che, uno alla volta, ci stavamo destando. Che confusione avevo fatto, tra il mio dolore e il suo! Incolpavo lui di farmi soffrire. Per la prima volta abbozzavo un sorriso, in mezzo al Fiume.
Sorriso di breve durata. Nelle mie lacrime, gocce del rivo, vedevo tutte le mie conoscenze di un tempo, le mie sconfitte, ciò che avevo perduto di me credendo di poter continuare ad averlo.
Potevo guardare il mio passaggio in Tibet, i miei corpi da Sufi, le filosofie orientali e occidentali, la Cabala e le Religioni tutte, lo Sciamanesimo, i Filosofi, i Naturalisti e gli Scienziati le opere dei quali avevo studiato, con foga, nelle mie esistenze. Potevo vedere i mie trascorsi medioevali e rinascimentali, gnostici o massonici, di dotti insegnanti nelle università europee o di umili frati nei conventi francescani, domenicani, benedettini. Riconoscevo in ognuno dei miei passaggi terreni una pietra del mio lastricato. O, meglio, una lacrima del mio fiume. Ogni vita un dolore, ogni dolore un fallimento, ogni fallimento un desiderio di riscatto, ogni desiderio un futuro creato, un nuovo percorso, un’altra perdita, altri tentativi e infine, una dopo l’altra, le decisioni di lasciar perdere. Un karma discendente, un destino di entropia.
Avevo sempre creduto, in ogni vita, di poter conservare le mie conoscenze, le fonti della saggezza che, mi dicevo, prima o poi mi avrebbe salvato dalla tristezza delle morti che incalzano le nostre brevi vite dentro ai corpi umani. Ma non era mai successo, mi rendevo conto ora dal punto in cui ero, nel mezzo del Fiume.

Ho sempre voluto trattenere il fiume, le mie lacrime, le mie vite, eppure tutte mi sono state strappate dalle mani. Il karma non mi ha mai perdonato. È quindi ora, osservo dal mio posto nel Fiume, che impari a farlo io. Che chiami a raccolta le mie lacrime e le guardi negli occhi, esse che dai mie occhi sono sgorgate. Che avvolga la mia sofferenza nei fiori d’acqua che il Fiume crea mentre scende a valle. Che accetti di percorrere il Fiume lungo le sue sponde di Terra fino al Mare, risalga nel Cielo, riscenda sotto forma di neve nella Bianca Himalaya dei Fratelli che con me hanno pianto tanto, e che in tutto questo io accetti di vedere le mie trasformazioni, creando l’Amore per tutto ciò che sono e sono stato, Amore che proprio per questo è assenza di Tutto.
Amici, Fratelli e Sorelle e Tu, che per primo ti sei risvegliato, ora so di che cosa è fatto il Fiume in cui tutti scorriamo.
Zvetan Lilov
Blogger Gruppo Rebis