I relitti sommersi
Vorrei portare qui una breve riflessione su quanto, ad anni di distanza, ho potuto comprendere con sorprendente chiarezza, ed in modo praticamente immediato (come in un “insight”) solo ora, riguardo al processo di copia delle energie di decomposizione e di morte fisica in casi di morte violenta: nella fattispecie morte per annegamento, infarto da stress o errori tecnici fatali, durante attività di immersione tecnica profonda in aria o miscele, su relitti sommersi.
Per far comprendere esattamente di cosa si tratta ho ritenuto necessario far precedere questa testimonianza da una breve descrizione su che cosa è il mondo delle immersioni tecniche, del tutto differente da quelle ricreative, per profondità, regole e rischi, descrizione che risulterà utile alla comprensione dell’insieme, perché l’approccio della subacquea tecnica è collegato direttamente con l’esperienza che qui riassumo: un’esperienza che ridimensiona il carattere un po’ inconsapevole delle condizioni e delle conseguenze animiche di missioni sui luoghi delle tragedie in mare.
1. La mentalità delle immersioni profonde
Per più di 13 anni ho svolto, per passione, attività di immersione tecnica con miscele elio-ossigeno, o in aria profonda, a quote tra i 50 e i 70 metri. Sono stato guida subacquea certificata della Regione Liguria dal 2003 al 2014. La vita delle guide è fatta di un particolare tipo di scambio con il centro immersione di riferimento. Noi portiamo i gruppi di subacquei all’obiettivo, organizzando e gestendo l’immersione in sicurezza, e il centro provvede all’intera logistica, in gran parte a suo carico: carica delle miscele, imbarco, dotazioni di sicurezza, stazione decompressiva, attesa al punto di immersione, recupero e assistenza alla base. Non veniamo pagati, ma disponiamo in completa autonomia di tutti i servizi, comprese le immersioni “libere”, che facciamo tra noi, e tutta una serie di benefit, come forti sconti sulle attrezzature, totale libertà di organizzarsi la vita a bordo e alla base. In cambio, ovviamente, il centro dispone di personale esperto, qualificato, che a volte ha anche contribuito a formare, e che quindi, ha mediamente interesse a mantenere. E, ovviamente, incassa le tariffe dei clienti. La vita nei centri di immersione, per noi “tecnici” è sempre stata divisa tra entusiastiche discussioni di medicina iperbarica o tecnologia e birre al Bar, dopo l’immersione. La subacquea tecnica, a differenza di quella ricreativa semplice, che usa attrezzatura standard e si limita ai 40 metri classici, è fatta di “diver” pluricertificati in immersioni a miscele iperossigenate e in elio, che gestiscono in proprio fisiologia dell’immersione, effetti narcotici calcolati e curve di saturazione programmate e che pianificano preliminarmente, con speciali software, ogni fase della missione, con regole analoghe a quelle del pilotaggio aereo.
Io sono stato guida tecnica sul relitto della petroliera Haven, ad Arenzano, che con i suoi 52 metri di larghezza, circa 200 di lunghezza, con i suoi 7 ponti del castello di poppa, giace in assetto di navigazione a 81 metri di profondità al largo di Arenzano, provincia di Genova, dall’11 Aprile 1991. Per diversi anni, insieme ai “colleghi” ci siamo divertiti a “bucare” la Haven da ogni parte, alla ricerca di nuovi percorsi, di passaggi alternativi, di discese nel blu a 60 metri: tutto era magnifico, emozionante, fico e soprattutto, per pochi. Perché la maggior parte dei clienti non ha una preparazione tecnica e non vuole investire anni a studiare, a formarsi con corsi specialistici, ad acquisire gradualmente l’esperienza e a dotarsi della necessaria ma costosa tecnologia: desidera semplicemente buttarsi in acqua e seguire quello che dice il computer appena comprato, dopo aver seguito corsi spesso poco qualificanti. Noi non percepivamo direttamente una sensazione di rischio: la felicità di stare il più possibile in acqua, nel blu, e il benessere fisico totale nei giorni di immersione (in parte anche dovuto, almeno all’inizio, agli effetti delle decompressioni in ossigeno puro) ci dava la sensazione, non di faciloneria, ma di un giusto equilibrio tra le nostre competenze e le difficoltà delle missioni, che a volte aumentavamo gradualmente. Un esempio di “rischio calcolato” era una cosa che facevamo solo noi (mai ai clienti!): discesa diretta in profondità, giù a 65

metri circa a babordo, ingresso nell’enorme squarcio della esplosione della fiancata, con le torce da 70 Watt nel buio totale della pancia della Haven, risalita seguendo le scale interne della sala macchine e uscita in avvitamento attraverso il boccaporto superiore di coperta, che ci riportava improvvisamente alla luce dei 54 metri; oppure caduta libera fino alla sala macchine, a cui si poteva anche accedere da una balconata di poppa. Emozioni di paura, mai. Molta attenzione, calcolo dei piani di contingenza, delle miscele adatte, ognuno con le sue tappe decompressive precalcolate: insomma non eravamo li per strafare, ma ci piaceva programmare nuovi percorsi e goderci le nostre piccole imprese, su cui brindare scherzando, davanti ad una birra, con tedeschi, francesi, austriaci, mezza Europa insomma. Alcuni di questi “percorsi segreti”, tutti nostri, li “regalavamo” ai clienti più affezionati (riconoscentissimi!), conoscendo naturalmente le loro reali capacità fisiche, tecniche ed emotive. Per anni è andata avanti così, in estate, in inverno (noi eravamo operativi tutto l’anno, mare permettendo). La vita come guide era spensierata, ma più o meno simile a quella dei piloti di caccia: sai che rischi (quando non porti i clienti), ma sono rischi calcolati e fanno parte del “mestiere”. Ilarità e spirito di gruppo si alternavano a solitarie e serie meditazioni sul tipo si programmazione e di parametri della successiva immersione. Ma vengo al punto.
2. La realtà di un cimitero sommerso
La Haven è un cimitero di incidenti subacquei. Niente che ne abbia mai giustificato la chiusura (le montagne non chiudono, e hanno più morti) ma comunque la media “Haven” stava su uno o due all’anno. Morti per incidente fatale sul fondo, o per malori in fase di risalita, o per inesperienza rispetto al livello della missione, morti durante esercitazioni per il brevetto finale, morti per stress da vestizione, per infarto, per intrappolamento (rari: un caso). Sì, perché in alcune occasioni i morti sono stati addirittura recuperati dai Rover dei Carabinieri subacquei dopo giorni di ricerca da parte dei sommozzatori. Ho assistito personalmente ad una CPR (Cardio-Pulmonary-Resuscitation) di 45 minuti con esito negativo ad un sub tedesco. Ricordo di aver immaginato il suo ingresso nella morte, appena il paramedico scosse la testa davanti a moglie e figlia, disperate in un paese di cui non conoscevano nemmeno bene la lingua. Ma a noi non poteva capitare, perché eravamo “esperti” e lì da anni. La sola dimensione acquatica era quella, lo ripeto di una mescolanza tra perfezionismo tecnico e divertimento. Tipico degli sport estremi: puoi fare roba tosta se la sai fare. Altrimenti stai a casa che è meglio. Eravamo anche consci di un certo spirito di élite, senza dubbio.
3. Un cambiamento inaspettato
Poi un giorno è capitato. Non un incidente, ma una improvvisa sensazione di repulsione idrofobica, a circa 52 metri, dopo circa 7-8 minuti di fondo di una delle mie immersioni libere “in solo” (i “tecnici” usano talvolta questa tecnica in casi particolari di rischio a loro carico o per semplice routine esplorativa). Una cosa mai vista, nemmeno nelle mie immersioni più profonde. Mi prese una irresistibile sensazione di angoscia, come di non riuscire a stare nel corpo, nell’acqua stessa, che mi aveva sempre protetto ed accolto: ora sentivo, invece, una impellente necessità, quasi epilettica, di abbandonare quel luogo che sembrava mi chiamasse dal fondo, e che non potevo voltarmi a guardare. Ricordo l’angoscia, soprattutto, simile a quella che ti viene se immagini di entrare di notte in un castello con amici, per scoprire, poi improvvisamente, di essere solo e di non trovare l’uscita…e la torcia ha smesso di funzionare. Contavo i secondi, nello sforzo di mantenere la risalita veloce ma costante e di non esplodere letteralmente fuori dall’acqua. Era qualcosa di più di un semplice effetto narcotico (respiravo aria quella volta) perché conoscevamo bene gli effetti narcotici dell’azoto sotto i 40 metri e li sapevamo riconoscere e controllare. Ma l’angoscia, le emozioni “animiche”, non erano previste, né sono mai state parte del quadro fisiologico di una narcosi d’azoto. E certamente l’episodio non poteva avere alcuna causa fisiologiche, perché ero in perfetta forma e ben addestrato. Questa cosa capitò due volte, nella stessa estate, circa 2009 o 2010, a distanza di pochi giorni. Ricordo che, durante la risalita, non riuscivo a stare vigile, che mi dominava un terribile senso di claustrofobia, mai vissuto prima, e che avevo la sensazione di dover vomitare qualcosa che mi spingeva dall’interno e indeboliva la lucidità con cui solo pochi minuti prima ero disceso felice sulla coperta, sicuro della routine e della esperienza di anni di immersione. Su tutto dominava ora, invece, una tremenda voglia, improvvisa, di fuggire ed uscire dall’acqua. Dovetti fare ricorso a tutto il mio addestramento di emergenza, per risalire “in libera” perché mi trovavo lontano dalla cima di attracco al relitto. Lo feci, fissando incessantemente e con fatica profondimetro e timer, cercando di mantenere l’orientamento in un blu senza confini, che girava turbinando attorno a me: un blu nel quale ero completamente avvolto e che sembrava contenere una presenza angosciante, come se qualcosa mi seguisse da dietro. I due episodi si conclusero nello stesso modo: risalita di emergenza controllata, nessuna conseguenza iperbarica, somministrazione di ossigeno puro e la sbigottita domanda degli amici: “che cavolo ti ha preso?”. Da quel giorno, però, cambiò tutto. Le missioni e gli accompagnamenti erano diventati meno fluidi: incombeva la paura di ritrovarmi in quella situazione. Cominciai ad accettare guide un po’ meno impegnative (quelle con i “ricreativi” da 40 metri). Il “lavoro” di routine aveva anche perso un po’ di attrattiva, visto che ora l’immersione conteneva per me la implicita eventualità di un esito fatalmente angoscioso e in continuo agguato. Una sensazione simile a quella del proprio posto di lavoro in cui ora entra un nuovo collega sgradito. Non ci vai più con la stessa energia di prima. Infatti al puro divertimento si era sostituita una continua scommessa con me stesso: riuscirò oggi a portare a termine la missione senza sorprese? E’ chiaro che nei pochi anni successivi, anche se ho continuato a stare bene, ed a tornare spesso in profondità, tutto sommato, non sono più riuscito a eliminare il ricordo vivido e del tutto personale, di quella angoscia provata così repentinamente e potentemente. Nel 2014 cessai, alla fine, di frequentare il centro, anche perché era finita un’epoca, diversi collaboratori erano cambiati e l’ambiente aveva perso, per me, in attrattiva e livello. Avevo accumulato esattamente 361 immersioni sul relitto Haven. Potevo dirmi soddisfatto, visto che ormai era quasi diventato un lavoro. Oggi, non sono più la persona di anni fa. Molte cose, evolutivamente parlando, sono cambiate, e con esse anche il modo di guardare al mondo delle cose, visibili e invisibili. Ora mi sembra più chiaro che quei morti hanno lasciato, secondo me, le loro tracce sui fondali della Haven.
4. Energie di morte come strano attrattore
Le energie di morte e di angosciante dolore della propria fine imminente o improvvisa, secondo me sono rimaste lì, esattamente come quelle dei luoghi degli incidenti automobilistici: invisibili attrattori che vanno in simbiosi casuale con le energie dei vivi che rispondono a quelle frequenze, probabilmente per caso o perché vi sono, alla fine, destinate. Nessuno dei miei “colleghi” di allora accetterebbe una conclusione simile, giudicandola, forse, frutto di insensata superstizione. Ma, mi sono detto più volte: un semplice episodio narcotico è come una ferita momentanea, si rimargina e se ne esce senza conseguenze. Un episodio, invece, fortemente collegato energeticamente ad un luogo, come quello che ho frequentato, e dalle notevoli conseguenze interiori, non si supera che lasciando quel luogo, che contiene energie di decomposizione, richiami che si possono copiare con la mente, parassitanti e inconsapevoli residui dell’inerzia di anime che hanno lasciato lì una eco della loro fine, della loro angoscia e paura. Questa, per me, è la prova che qualcosa là sotto era effettivamente successo in quella estate ed il ricordo vivido di quella situazione rimane ancora ben presente, con tutte le sensazioni di quel momento. Le conseguenze che portai su di me negli anni successivi non erano di tipo fisiologico, ma animico: riguardavano, cioè, il modo a cui io stesso ora consideravo le immersioni come un rischio che non avevo più voglia di correre, perché era cambiata proprio l’energia del luogo nei miei confronti. Quel mare così invitante ora si era fatto per me oscuro, infido, possibilmente un traditore improvviso. Ecco, dunque: i relitti rappresentano secondo me un luogo insolito delle memorie di morte e di dolore, a cui pochi degli sportivi, forse, pensano nei termini che ho voluto descrivere. Credo che, a volte, i “passanti” di quel luogo intercettino queste energie assorbendole con esiti diversi, esattamente come accade nei luoghi di terra, ben noti per le loro energie. Ma la maggior parte di loro non sembra farsi domande o percepire questa dimensione nascosta dei luoghi sommersi: una dimensione che, però, grandi scrittori e romanzieri del passato avevano ricreato nelle loro opere e che su dime, ne sono convinto, ha esercitato una forza potente e inaspettata.
Paolo Genta
Blogger Gruppo Rebis