Io sono JOKER. È questa la frase a cui ho pensato più spesso durante la proiezione del film diretto da Todd Philips che ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra cinematografica di Venezia. Mi sono sentita molto vicina al personaggio, interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix. La sua espressività, unita al suo eccezionale carisma, rende vincente una trama inconsistente, oserei dire banale.
Arthur Fleck è un attore comico fallito cresciuto in condizioni di miseria, affetto da un disturbo causato dalle violenze cui è stato sottoposto da bambino e caratterizzato da scoppi di risa incontrollate. È dinoccolato, goffo, remissivo; cerca conferme, riconoscimento, supporto. Venera chi si prende gioco di lui, ignaro dei meccanismi che muovono il contesto malato cui appartiene e di cui è il prodotto.
Per via della sua stranezza, viene umiliato, deriso e maltrattato da tutti. È il bersaglio proiettivo su cui tutte le persone ordinarie, o vogliamo dire “normali”, riversano la propria aggressività nel tentativo di esorcizzare il male che si rifiutano di vedere in se stessi e non riescono a integrare nella loro identità cosciente.
Siamo tutti Joker. La patologia mentale è solo una esasperazione di meccanismi di funzionamento normale. Che ci piaccia o no, ognuno di noi ha un lato gretto, meschino, brutale, violento, lascivo, folle che deve riconoscere per poterlo tenere a bada. Ognuno è Caino e Abele, Luce e Tenebra, Vittima e Carnefice. Tutti, nessuno escluso! Solo mediante l’integrazione delle proprie parti deboli e misere ogni individuo può giungere alla formazione di una personalità matura, che sia in grado di adattarsi proficuamente al contesto di vita comunitario.
Ciò a cui non si dà spazio, ciò su cui non si fa luce, troverà il modo di emergere e lo farà in modo distruttivo, dato che le sovrastrutture del pudore, del disgusto, della ragione e della morale sono fragili quando non si sono verificate le condizioni ecologiche che avrebbero permesso lo sviluppo di una personalità armonica.
E’ quel che succede a Joker: uccide i tre uomini che si sono presi gioco di lui sancendo la genesi e lo sviluppo della sua follia omicida. Opporsi ad un’ingiustizia dovrebbe essere la norma, compiere omicidi no; ma nessuno ha riconosciuto la sua umanità e, di riflesso, lui non riconosce il diritto altrui all’esistenza e alla sicurezza. Così comincia ad ammazzare tutti quelli che lo hanno umiliato e che gli hanno fatto del male. Per Fleck l’omicidio rappresenta la rottura della regolarità, dell’ordine costituito, l’unica via possibile per reagire a una routine fatta di continue umiliazioni e abusi. Da vittima innocente egli diviene carnefice, identificato nell’aggressore. Trattato da sempre come un mostro, finisce per diventare quello che gli altri vedono in lui, assorbe nella sua struttura di personalità i giudizi degli altri rendendo evidente un meccanismo mentale potentissimo: l’identità si costruisce all’interno del tessuto sociale grazie ai feedback che riceviamo, ai commenti al nostro modo di agire e reagire, alle fantasie che suscitiamo, volenti o nolenti, in coloro con cui interagiamo.
Una persona debole, malata, che non aderisce ai canoni della normalità perché, per esempio, non è autosufficiente e autonoma, viene allontanata in quanto costituisce un peso e non una risorsa per la sopravvivenza individuale e sociale. Il senso di comunità, il senso di giustizia e di responsabilità non appartengono ai meccanismi di funzionamento della mente animale. Le strutture cerebrali ataviche ci spingono ad avvicinarci a tutte quelle persone che possono supportarci e ad allontanarci dalle altre.
Eppure centinaia di milioni di persone nel mondo sono colpite da disturbi mentali, comportamentali, neurologici e legati al consumo di sostanze. Secondo stime effettuate dall’ Oms nel 2002, 154 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione, 25 milioni di schizofrenia, 91 milioni sono affette da dipendenza da alcol, 15 milioni da disturbi legati al consumo di droga. Un recente report pubblicato dalla OMS mostra che 50 milioni di persone soffrono di epilessia, 24 milioni sono affette da Alzehimer e altre demenze. Le ricerche epidemiologiche internazionali hanno ormai dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche nei cosiddetti Paesi sviluppati sussiste una stretta correlazione tra livello socio- economico e stato di salute: le persone che si collocano nella fascia inferiore della gerarchia sociale registrano tassi di mortalità (per quasi tutte le principali cause di morte) di gran lunga superiori rispetto a coloro che sono situati ai vertici. La moderna società industriale neoliberista è caratterizzata da alti tassi di disoccupazione, forme contrattuali flessibili ma precarie, lavoro di scarsa qualità, risorse inferiori alla domanda, problemi di alloggio, recrudescenze di atteggiamenti razzisti, omofobi, misogeni, tratti tutti che generano e mantengono le disuguaglianze economico-sociali le quali, a loro volta, producono disagio e, in casi estremi, patologia.
Bene mostra il film che Joker è l’emblema delle dinamiche attive in una società malata, non un isolato individuo criminale. La sua patologia mentale, come spesso succede, si radica nell’ambiente degradato dei bassifondi in cui è cresciuto, deprivato di affetti e relazioni buone, ed è aggravata dallo stereotipo negativo con cui normalmente la comunità connota una persona affetta da disturbi ascrivibili allo spettro psichico: debole, diversa, senza spina dorsale, incapace di camminare con le proprie gambe e di essere di aiuto alla comunità.
Credo che la stigmatizzazione della malattia mentale tragga origine nell’ignoranza, nel prestigio fuori misura che viene riconosciuto all’immagine dell’uomo di successo e della donna in carriera proposta dai media come modello vincente, negli stili di pensiero preconfezionati, in una mancanza di riflessione circa la reale genesi del disturbo. Si preferisce non tenere conto delle condizioni ecologiche che costituiscono un ricco humus per la fioritura del disagio psichico. Basti leggere queste poche righe che cito testualmente da documenti dell’OMS: “ I determinanti della salute mentale e dei disturbi mentali includono non solo attributi individuali quali la capacità di gestire i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri comportamenti e le relazioni con gli altri, ma anche fattori sociali, culturali, economici, politici ed ambientali, tra cui le politiche adottate a livello nazionale, la protezione sociale, lo standard di vita, le condizioni lavorative ed il supporto sociale offerto dalla comunità. L’esposizione alle avversità sin dalla tenera età rappresenta un fattore di rischio per disturbi mentali ormai riconosciuto e che si può prevenire.”
Ma è più comodo condannare, deridere, porre il biasimo! La tendenza ad etichettare un individuo per una caratteristica anomala, ad enfatizzarla a dismisura, non prendendo in considerazione le altre parti costitutive della sua identità, come se fosse un prodotto in scatola, dovrebbe essere combattuta con lo stesso accanimento con cui ci si difende dalla morte. Il senso di sé come individuo, l’autostima, si plasma all’interno della relazione con gli altri grazie all’ immagine che ci viene restituita dalle persone con cui interagiamo e grazie alla relazione con i sistemi simbolici di riferimento maggiormente apprezzati all’interno della cultura di appartenenza quali il lavoro, la famiglia, i valori. Una persona cui si riconosce una malattia mentale, in genere, non riesce a collocarsi in una rete di relazioni significative che costituiscono un indispensabile fattore d’identità e un necessario nutrimento affettivo. Gli effetti sono devastanti per la persona su cui si appone il marchio d’infamia ma anche per chi gli sta attorno.
Questo bene mostra Joker.
Una delle scene del film che più mi ha colpito è quella in cui il protagonista scrive sul suo diario che la cosa più brutta di una malattia mentale è doversi comportare come se non se ne fosse affetti. Mi sono chiesta, a questo punto, perché diamo tanto peso all’altrui giudizio.
Abram Maslow, esponente di spicco della psicologia umanista, viene ricordato da tutti come colui che ha creato la piramide dei bisogni, un modello rappresentativo delle necessità che l’essere umano deve soddisfare per arrivare all’autorealizzazione, disponendoli in una piramide secondo un ordine crescente di complessità. La base della piramide è costituita dai bisogni elementari dalla cui soddisfazione dipende la sopravvivenza, come il cibo, un tetto sulla testa o un partner sessuale; risalendo in ordine, dopo il bisogno di sicurezza, lo studioso pone il bisogno di appartenenza: ogni individuo ha la necessità di sentirsi inserito in un gruppo, amato, apprezzato, parte di un insieme più ampio. Quindi, secondo questo modello, il bisogno di appartenenza, si colloca dopo il bisogno di assolvere alle necessità fisiologiche. Gli esperimenti di un altro notissimo psicologo statunitense, Harry Harlow, invece, dimostrano che, prima della ricerca del cibo, l’essere umano cerca il contatto con gli altri membri della sua specie per riceverne conforto e senso di sicurezza. Harlow ha condotto i suoi esperimenti sugli stili di attaccamento osservando il comportamento di piccoli di macachi tenuti in gabbia e separati dalle loro madri. In una fase dell’esperimento, all’interno della gabbia venivano collocate due sagome costruite in modo che la loro forma ricordasse la madre, una ricoperta di panni morbidi al tatto, l’altra solo con anima di ferro a cui era attaccato un biberon pieno di latte. I piccoli macachi optavano sempre per la “mamma” morbida e si staccavano da lei solo per il tempo necessario per nutrirsi; se si interveniva nella gabbia simulando una situazione di pericolo, i piccoli correvano a stringersi al supporto morbido, ignorando quello che poteva fornire cibo. Quindi, il loro primo istinto di fronte al pericolo, era cercare conforto tramite il CONTATTO con l’altro. Inoltre i piccoli diventavano aggressivi o depressi se si toglieva dalla gabbia la sagoma morbida. Il bisogno di contatto è dunque primario e fondante della struttura di una persona.
Non c’è bisogno di chiamare in causa Freud per capire l’effetto patogeno che la denigrazione, il pettegolezzo, lo sfottò hanno su di un individuo che versa in una condizione di accresciuta vulnerabilità molto spesso non a causa sua.
Se imparassimo ad essere presenti a noi stessi, se diventassimo consapevoli dei meccanismi che governano le nostre relazioni, impareremmo a riconoscerci nell’altro, a vedere attraverso i suoi occhi, a scorgere in lui debolezze che fanno parte della nostra stessa natura. Smettiamola di fare i cretini! Non esiste un solo individuo sulla faccia della terra che non abbia fallito in modo eclatante nella sua vita, che non abbia gravi mancanze, che non abbia commesso errori che pesano sulla testa di altri, che non abbia avuto momenti di debolezza. La tendenza maggiormente diffusa, invece, è quella di proporre a se stessi e agli altri un’immagine vincente fasulla, che non ricalca il sé reale ma è proiezione ideale di quel che dovrebbe essere e che in realtà non è.
Nel momento in cui ci arroghiamo il diritto di giudicare qualcuno senza averne l’autorevolezza, ci collochiamo su di un gradino superiore a quello su cui è posizionato l’oggetto della nostra attenzione rimuovendo così le nostre mancanze che quella persona ci sta mostrando come in uno specchio.
Però, se finalmente riconoscessimo di essere fatti di carne ed ossa, se imparassimo a vedere la follia che serpeggia silente al di sotto della sovrastimata ma poco compresa razionalità, potremmo acquisire l’atteggiamento benevolo e compassionevole che, in un contesto civile, è opportuno manifestare nei confronti di una persona che soffre.
Un bel bagno di umiltà non ha mai fatto male a nessuno, anzi, ritengo che possa essere il vero mezzo che può di trasformare il bruto in cittadino.
Iolanda Della Monica
Blogger Gruppo Rebis